Perché siamo qui?
“La domanda è: secondo te, che senso ha vivere?” La frase di apertura di una celebre canzone dei Baustelle, il quesito che affligge più o meno gravemente tutti almeno qualche volta nella vita (se non ogni giorno, nei casi peggiori): a cosa sono finalizzati i nostri tanti sforzi quotidiani? Esiste un principio regolatore che amministra i fili delle nostre sorti terrene? Qualcuno da lassù ride muovendo le dita a tempo di stravaganti motivi recitando un “Ballate! mie marionette!”? Oppure tutto è in preda al caos e siamo qui semplicemente perché “un bene superiore” ci ha creati, che non è un dio misericordioso, ma la mera selezione naturale: siamo qui solo perché discendiamo da organismi che hanno saputo sopravvivere, a discapito di altri e non c’è altro da aggiungere? Da secoli l’uomo se lo chiede. Nomi celeberrimi della filosofia e della letteratura si sono prodigati in questa impresa, Sartre, Dostoevskij, per citarne un paio, impossibile poi annoverare le opere cinematografiche e teatrali che ruotano attorno a questo tema! Forse proprio per la loro natura visiva adatte a veicolare immediatamente certe idee e insieme ontologicamente vicine ad una naturale esperienza cosciente umana. È proprio nei punti più fragili di una simbiosi sociale che avvengono le peggiori rotture, dal momento che queste risultano investite dalle tensioni tacite dell’intero gruppo, per tanto, molto spesso gli adolescenti ed i post-adolescenti (anche: ventenni) ne soffrono maggiormente o comunque, un po’ con l’ingenuità tipica di chi non ha molti anni di esistenza da addurre ad un metaforico curriculum, si sanno muovere meglio in questi discorsi, con più libertà, per lo meno! Forse non hanno ancora adottato completamente molte stereotipie che regolano il pensiero degli adulti? Sappiamo che una vita spesa senza capire il perché può condurre al suicidio, alla volontaria discesa da una giostra che appare dolorosa nella sua grottesca natura insensata costellata da umiliazioni e delusioni. A queste domande, noi, non sappiamo ben rispondere: un argomento fumoso e intangibile!
Tuttavia, ci siamo premurati di intervistare giovani universitari, appartenenti a varie facoltà, da quelle scientifiche a quelle umanistiche e che a loro volta si sono posti a lungo questa domanda, per scoprirne di più. Iniziamo ad analizzare il problema da un punto di vista puramente dialettico e logico: vivere non ha senso perché è la cornice all’interno della quale accadono le cose correlate fra loro dalla proprietà “avere senso”. Però suicidarsi o meno è un’eventualità interna alla cornice, quindi si può valutarne il senso: in genere i piaceri attuali o potenziali sono sufficienti a voler restare in vita, e la sofferenza del trapasso in sé è deterrente. Spesso al punto da spingere i più a non porsi neanche il problema. Probabilmente, qualcuno vive per uno scopo, raggiunto il quale è comunque anomalo darsi la morte; I più vivono invece per gli scopi minori che collegano le singole cose fra loro, il che è bene visto che interrogarsi a proposito dello scopo generale della vita è perlopiù un errore logico che può dare disagi a chi non lo nota, ma non trova risposta. Se invece ci interessa fare i riduzionisti a tutti i costi ed osservare la questione dall’alto, bene dunque, diamoci pure al “top-down” e vediamo l’uomo per come è: un animale che ha sviluppato per qualche curiosa coincidenza evoluzionistica una coscienza, atta primariamente alla propria sopravvivenza, e quindi si è consequenzialmente ritrovato nella condizione di potersi porre problemi che gli altri animali non sono in grado di formulare essendo, in una scala di valori in cui consideriamo la facoltà di riflettere un vantaggio assoluto, meno evoluti e dunque semplicemente costantemente impegnati a sopravvivere soddisfando i bisogni fisiologici più imperanti. In questo senso, la vita avrebbe senso “nell’essere sé stessa”, ovvero, tautologicamente, siamo qui solo perché siamo qui e siamo stati creati dal caso per continuare a sopravvivere e trasmettere i nostri geni a discapito di quelli degli altri organismi antagonisti che devono essere dominati o soppiantati.
Ora, tuttavia, sorge spontaneo chiedersi: se l’uomo non è solo fatto di logica ma anche di sentimento e affettività, come può porsi davanti al senso della vita, se si lascia guidare da valori diversi? Vivere è fondamentalmente rapportarsi ad altri: è altro che mi ha chiamato ad essere, è l’altro che mi ha cresciuto, è l’altro che in ogni modo mi chiama e mi chiede di rispondere. Io posso rifiutare tutto ciò, chiudermi in me, e misconoscere questo debito, ma questo comporta solo un indebolimento della mia persona, del mio essere. il darmi all’altro, espormi a lui, invece, non determina un’emorragia del senso, ma solo arricchimento. Allora vivere è costruirsi sempre grazie ed insieme ad altri. “Vivere” come “essere gettati in altro”, e scoprirlo sempre di nuovo come insieme altro ed identico a me.
E che ne è della contemplazione artistica che da sempre ha interessato gli animi classici, fondatori della nostra moderna cultura occidentale? Si vive anche per cogliere vaghi momenti di bellezza che, come dice Montale, per un attimo rompono il velo della Realtà. Oppure perché vivere è sofferenza e non vogliamo ferire le persone che tengono a noi uccidendoci e vogliamo dunque formare una solida catena contro le avversità della natura? Oppure per crescere i nostri figli e perpetuare la specie dando ascolto a quello che è il nostro primario imprinting genetico. Nella speranza, magari vana, di lasciare una traccia nella storia attraverso i propri discendenti.
Per citare la poesia di George Grey di Edgar Lee-Masters, autore della splendida Antologia di Spoon River:
“Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio-
è una barca che anela al mare eppure lo teme.”
Dunque, forse, il vero senso della vita è continuare a parlare, a pensare, a ricercare e ad esperire su questo mondo, lasciandoci inondare dai fiumi paralleli al nostro e conservando una nostra unicità insita nello scegliere sempre fluidamente il punto di vista con cui guardare le cose.